Separazione – Comunione de residuo e proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi
La Suprema Corte di Cassazione – Prima Sezione Civile – con l’ordinanza n. 16993 del 14/06/2023, in tema di comunione de residuo e proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi, ha espresso il seguente principio di diritto:
Ai sensi dell’art. 177 lett.c), i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi cadono nella comunione differita o de residuo ove non consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione e quindi anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione e ancora non esigibili, in difetto di previsione in tal senso, purché costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale; tra essi sono compresi i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 734-2021, pubblicata il 17/6/21, in giudizio promosso, nell’agosto 2011, da F.R., nei confronti dell’ex coniuge M.V., al fine di sentire accertare il proprio diritto a percepire il 50% (a) di quanto liquidato, a titoli di compensi professionali per attività svolta nei confronti di terza società, al convenuto con sentenza n.689/2009 del Tribunale di Ascoli Piceno e (b) del TFR dallo stesso maturato e percepito, nel 1992, in costanza di matrimonio, in quanto somme tutte ricadenti nella comunione e art. 177 comma 1 lett.c) c.c. (comunione sciolta nel 1996 a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione tra i coniugi), nonché (c) di sentire condannare il convenuto al rimborso della metà degli importi indebitamente prelevati, tra il 1990 e il 1992,
nel corso dell’unione matrimoniale dai conti correnti comuni e non impiegati ai fini di cui all’art. 186 c.c., ha confermato la sentenza del giudice di primo grado, con la quale erano state respinte tutte le domande attoree.
In particolare, i giudici di appello hanno ritenuto prescritto il credito relativo agli importi prelevati dai conti correnti comuni, tra il 1990 ed il 1992, in difetto di validi atti interruttivi (non avendo valenza di atto di costituzione in mora e di richiesta di adempimento rivolta
direttamente al debitore gli atti giudiziali, memorie e comparse e atti introduttivi, prodotti, soprattutto in difetto di notificazione degli stessi al debitore personalmente) e di ammissione dei suddetti prelievi da parte del debitore (presenti negli atti difensivi sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem e quindi non aventi valenza confessoria), e il credito relativo al 50% del TFR liquidato al M. (dovendosi ritenere tempestivamente sollevata la relativa eccezione da parte del M., in sede di conclusioni di primo grado e nell’atto di appello, con riferimento a “tutti i diritti e le pretese vantate dalla F.”); era infondata poi la doglianza circa il rigetto della pretesa creditoria, a titolo di comunione de residuo, sulla metà dei compensi professionali percepiti dal M. per attività lavorativa svolta durante il matrimonio, in dipendenza del rapporto professionale con la Rolf srl, e non consumati per il soddisfacimento di bisogni della famiglia fino al momento dello scioglimento della comunione, in quanto essa non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata, nella quale si era evidenziato che, al momento dello scioglimento della comunione tra i coniugi (nel 1996, secondo quanto accertato in primo grado, a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale dei coniugi), il M. non aveva né la disponibilità né l’aspettativa di percezione di tali somme durante il matrimonio, avendo iniziato il giudizio per vedersi riconosciuta la pretesa creditoria nei confronti del terzo Rolf srl solo successivamente, ottenendo la sentenza nel 2009, cosicché non poteva averle né consumate né tantomeno sottratte in quanto il credito non era neppure ancora esigibile.
Avverso la suddetta pronuncia notificata il 18/6/21, F.R. propone ricorso per cassazione, notificato il 7/9/21 (due ricorsi uguali depositati da riunire), affidato a nove motivi, nei confronti di M.V. (che non svolge difese). La ricorrente ha depositato identiche memorie nei due ricorsi.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3,dell’art. 2943 c.c., in punto di ritenuta prescrizione dei diritti; b) con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2943 c.c. e 1219 e 1241 c.c.; c) con il terzo motivo, la motivazione perplessa o apparente, ex art. 360 c.p.c., n. 4, in punto di ritenuta inidoneità ad interrompere la prescrizione dell’eccezione di compensazione sollevata in sede di appello della sentenza di divorzio; d) con il quarto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 4, dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sul terzo motivo di appello, in punto di tardività dell’eccezione di prescrizione del credito vantato in relazione al TFR percepito dal M.; e) con il quinto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 4, dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., e la nullità della sentenza per motivazione inesistente, in punto di omessa motivazione sull’eccepita tardività dell’eccezione di prescrizione, ovvero ex art. 360 c.p.c., n. 5; f) con il sesto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 4, dell’art. 112 c.p.c., per ultrapetizione, in relazione agli artt. 166 e 167, comma 2, c.p.c. e 2938 c.c. e sempre alla decadenza del convenuto dal potere di sollevare eccezioni di merito con la comparsa di risposta; g) con il settimo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 115 c.p.c. e del principio di non contestazione, in relazione al fatto della percezione da parte del M. di L. 30.000.000 nel 1992 a titolo di TFR; h) con l’ottavo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 177 comma 1 lett.c) c.c., in ordine al diritto vantato di percepire il 50% degli introiti derivati dall’attività professionale del marito e maturati durante il matrimonio e non consumati al momento dello scioglimento della comunione; i) con il nono motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 177 comma 1 lett.c) c.c., per avere la Corte d’appello posto un requisito (l’esigibilità) non contemplato dalla norma.
2. Preliminarmente, il ricorso n. 23136/2021 (depositato il 21/9/21) va riunito a quello n. 23074/2021 (depositato il 20/9/21), ai sensi dell’art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni separate della stessa sentenza (proposte peraltro dalla stessa parte). Peraltro, il secondo ricorso risulta identico per contenuto al primo (e la ricorrente ammette, in memoria, di avere proceduto al secondo deposito telematico dello stesso ricorso “nell’incertezza dell’esito del deposito telematico”) sì che si può parlare di un unico ricorso proposto dalla stessa parte, che come tale va esaminato.
3.Le prime tre censure di tale ricorso, attinenti all’idoneità ad interrompere la prescrizione dei crediti vantati (con la citazione del 2011) in relazione agli asseriti prelievi da parte del M. dai conti correnti comuni, di alcuni atti interruttivi (si indicano in ricorso la memoria di costituzione del 5/12/1997, depositata, nell’ambito di procedimento per sequestro in corso di causa, in relazione “alla richiesta di mantenimento formulata dal M. ai sensi dell’artt. 156 c.c.” nell’agosto 1997 e il ricorso in appello del 27/12/2002, proposto avverso le statuizioni di natura patrimoniale contenute nella sentenza di divorzio n. 611/2002 del Tribunale di Macerata, con il quale si era eccepito il credito derivante dagli indebiti prelievi dai conti comuni in compensazione dell’assegno divorzile chiesto dal marito), sono inammissibili.
Assume la ricorrente di avere con tali atti giudiziali avanzato domanda di restituzione delle somme prelevate dai fondi comuni nei confronti del M. e che essi, in quanto diretti al difensore del M., erano di per sé idonei ad interrompere la prescrizione anche nei confronti del debitore.
Orbene, l’atto introduttivo della prescrizione del diritto di credito, richiesto dall’art. 2943 cit., comma 3, quale atto idoneo a costituire in mora il debitore ossia consistente in un’intimazione scritta e recettizia, deve comunque esprimere una volontà di essere soddisfatto e la valutazione dell’idoneità di un atto ad interrompere la prescrizione – quando non si tratti degli atti previsti espressamente e specificamente dalla legge come idonei all’effetto interruttivo, come nei casi indicati nei primi due commi dell’art. 2943 c.c. –
costituisce apprezzamento di fatto, come tale riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici o da errori giuridici (Cass. 29609/2018; Cass. 6336/2009; Cass.19359 /2007; Cass. 22571/2004; Cass. 4789/1999; Cass.723/1981).
Nella parte riguardante l’efficacia interruttiva degli atti giudiziali allegati, le censure sollevate dalla ricorrente investono la ricostruzione del contenuto dei suddetti atti, la cui interpretazione, in quanto volta ad individuare l’intento concretamente dalla creditrice, si
risolve un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità` esclusivamente per violazione delle regole ermeneutiche legali o per vizio di motivazione. Sempre questa Corte (Cass. 14517/2007) ha chiarito che ” L’atto interruttivo della
prescrizione richiesto dall’art. 2943 c.c. comma 3 non deve essere necessariamente identificato con le costituzioni in mora e con i criteri che individuano quest’ultima, sicché ha efficacia interruttiva della prescrizione la dichiarazione del creditore resa in giudizio di voler insistere nella propria pretesa creditoria, anche se tale dichiarazione è resa nei confronti del difensore del debitore e non verso questo personalmente, ed anche se la dichiarazione -che risulti dalla verbalizzazione ufficiale del processo – non abbia forma scritta” (conf. a Cass.5104 /2006). In conformità (Cass. 25984/2011), si è affermato che “in tema di interruzione della prescrizione, posto che l’efficacia interruttiva va riconosciuta all’atto di costituzione in mora anche quando sia indirizzato al rappresentante del debitore, non può essere negata tale efficacia all’atto di costituzione in mora inviato dal creditore al difensore del debitore senza aver prima accertato se il difensore possa considerarsi rappresentante, effettivo o apparente, del debitore medesimo, dovendo ascriversi siffatta qualità di rappresentante all’avvocato il quale, in nome e per conto del debitore, risponda alla richiesta di pagamento del creditore, facendo valere in via stragiudiziale le ragioni del cliente. Infatti, al fine anzidetto, l’effettività dei poteri rappresentativi è data dal conferimento del mandato difensivo, senza che sia necessaria la procura scritta ex art. 83 c.p.c., prevista solo per lo svolgimento dell’attività giudiziale; l’apparenza di detti poteri, invece, scaturisce da un comportamento colposo dell’apparente rappresentato, tale da ingenerare il ragionevole affidamento del creditore circa il loro valido conferimento”.La Corte d’appello, con riferimento agli atti giudiziali allegati dalla F. (inclusa la memoria difensiva del 1997, di cui si parla nel presente ricorso), nell’escludere che essi, per il loro specifico contenuto, costituissero richieste scritte di adempimento rivolte espressamente al debitore, ha richiamato anche una serie di pronunce intervenute nel rito del lavoro, ove si è affermato, in relazione a domanda introduttiva proposta con ricorso depositato e poi notificato, che “l’effetto interruttivo della prescrizione esige, per la propria produzione, che il debitore abbia conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) dell’atto giudiziale o stragiudiziale del creditore; esso, pertanto, in ipotesi di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, non si produce con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito, ma con la notificazione dell’atto al convenuto” (Cass. 3373/2003; Cass. 14862/2009; Cass. 4034/2017).
Inoltre, con riferimento all’eccezione di compensazione sollevata con l’atto di appello della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel 2002, la Corte d’appello ha rilevato che non si trattava di un valido atto interruttivo della prescrizione, in mancanza di una richiesta di adempimento avanzata direttamente nei confronti del preteso debitore, ma di una difesa proposta, nell’ambito dell’impugnazione della decisione di primo grado volta a contestare la quantificazione dell’assegno di divorzio chiesto dal marito, “al solo fine di ottenere dall’adita autorità giudiziaria un provvedimento meno oneroso in ordine alla determinazione” del contributo-assegno divorzile.
Ne deriva che la Corte d’appello ha ritenuto gli atti giudiziali inidonei ad interrompere la prescrizione sia per il loro contenuto sia perché non rivolti direttamente al debitore.
Ora, la ricorrente, nelle pagg. da 11 a 13 riproduce, ai fini dell’autosufficienza del ricorso, solo il contenuto della memoria difensiva del dicembre 1997 nel procedimento per sequestro nel giudizio di separazione personale tra i coniugi, nella quale la F. affermava che l’importo di “Lire 185.752.000”, prelevato dal marito dai conti comuni, “deve” essere restituito dal M. “maggiorato degli interessi e rivalutate, riservandosi all’uopo di agire in separata sede”. In nota a pag. 12, la ricorrente deduce che si tratterebbe di una riserva ben precisa, volta ad ottenere la ripetizione di una somma quantificata.Tuttavia non si ravvisano vizi di violazione di legge (non essendo invocate violazioni dei criteri ermeneutici di interpretazione delle scritture), con riguardo all’art. 2943 c.c. in particolare, considerato che, in tema di interruzione della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943 c.c., perché un atto abbia efficacia interruttiva, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, “l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora”, essendo stata ritenuta ” priva di efficacia interruttiva la riserva, contenuta in un atto di citazione, di agire per il risarcimento di danni diversi e ulteriori rispetto a quelli effettivamente lamentati, trattandosi di espressione che, per genericità ed ipoteticità, non può in alcun modo equipararsi ad una intimazione o ad una richiesta di pagamento” (Cass. 25500/2006; Cass. 3371/2010; Cass. 28518/2022).
In ordine poi all’atto di appello, nel giudizio di divorzio, notificato nel dicembre 2002 al difensore del M., contenente l’eccezione di compensazione del credito relativo all’assegno divorzile chiesto da quest’ultimo con il credito di essa F. verso il primo per i prelievi “sui conti correnti muliebri” di complessivi “E 185.924,48” (L. 360.000.000) operati dal marito, la ricorrente, alle pagg. 13 e 14 del ricorso, contesta l’interpretazione offerta dalla Corte di merito e ne afferma la valenza interruttiva della prescrizione, in quanto si trattava comunque di un atto giudiziale contenente una eccezione riconvenzionale volta a paralizzare la pretesa avversaria (in punto di riconoscimento di un assegno divorzile) ma pur sempre implicante la volontà di avvalersi del controcredito derivante dal diritto di restituzione dei prelievi illegittimi, al fine di estinguere il proprio debito. La deduzione risulta però priva di specificità, in quanto, ai fini della prova della erronea valutazione da parte della Corte d’appello della controeccezione di interruzione della prescrizione, sarebbe stato necessario riprodurre il contenuto dell’atto di appello non solo i pochi estratti di pag. 13. In ogni caso, il vizio di motivazione apparente o del tutto carente ed illogica non ricorre (Cass. Sez. Un. 22231/2016).
4. Il quarto, quinto e sesto motivo, tutti attinenti alla questione della tardività dell’eccezione di prescrizione del credito per quota del TFR percepito dal M., sono inammissibili. La Corte d’appello ha ritenuto che il motivo di gravame proposto non coglieva nel segno l’eccezione specifica era stata tempestivamente sollevata da parte del M. “in sede di conclusioni” di primo grado e nell’atto di appello con riferimento a “tutti i diritti e le pretese vantate dalla F.”, anche quindi con riferimento al credito da TFR (per circa Euro 30.000,00) percepito dal coniuge divorziato.
La ricorrente deduce, oltre a vizio di motivazione, che la Corte d’appello avrebbe violato anche gli artt. 166 e 167, comma 2, c.p.c., in quanto il M. non aveva, in primo grado, “argomentato” tempestiva (in comparsa di costituzione e risposta) eccezione (in senso stretto) di prescrizione con riguardo allo specifico credito ex adverso vantato sul TFR, riproducendo un estratto di tale atto difensivo, riguardante il solo credito da prelievi nei conti correnti comuni.
Ma la Corte d’appello afferma che “nelle conclusioni di primo grado” il M. aveva chiesto dichiararsi prescritti tutti i diritti vantati dalla F.. E questa Corte, esaminati gli atti (Fascicoletto “A”, non “B”, come erroneamente indicato in ricorso, file depositato in via telematica dalla ricorrente), essendo dedotto un vizio di error in procedendo, rileva che, in sede di comparsa di costituzione e risposta del M. del 19-21- 11-2011, nel giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale di Ascoli Piceno, lo stesso eccepiva (a pagg. 9 e ss) “intervenuta prescrizione di tutti i diritti vantati dalla sign. ra F.”, con riguardo sia alla prescrizione decennale sia a quella quinquennale, rilevando che, pur nell’ipotesi che egli avesse “eseguito prelevamenti non autorizzati dai conti correnti intestati alla moglie” o “illegittimamente sottratto somme alla comunione”, il termine di prescrizione del diritto alla restituzione vantato dalla moglie avrebbe comunque iniziato a decorrere, quantomeno, dal 1996, con loro conseguente prescrizione. Al punto 3 delle conclusioni, in tale comparsa, il M. chiedeva accertare e dichiarare che “tutti” i diritti e le pretese della F. sono prescritte. Risulta pertanto del tutto corretta la statuizione, non efficacemente attinta dalle censure.
5. Il settimo motivo, attinente al merito della pretesa creditoria relativa al TFR, è di conseguenza assorbito.
6.L’ottavo ed il nono motivo, riguardanti il credito vantato sui compensi professionali riscossi dal M. dalla società Rolf srl (a seguito di giudizio, definito in primo grado nel 2009, di accertamento del credito, avviato dalla società Rolf nel 1993, allorché i coniugi F./ M.
erano ancora sposati, essendosi poi separati con sentenza definitiva del 1996) sono, invece, fondati.
La Corte d’appello ha affermato che la pretesa, a titolo di comunione de residuo, ex art. 177, comma 1, lett.c), c.c., sulla metà dei compensi professionali percepiti dal M. per attività lavorativa svolta durante il matrimonio, in dipendenza del rapporto professionale con la Rolf srl, e non consumati per il soddisfacimento di bisogni della famiglia fino al momento dello scioglimento della comunione, era inammissibile in quanto la censura non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata, nella quale si era evidenziato che, al momento dello scioglimento della comunione tra i coniugi (nel 1996, secondo quanto accertato in primo grado, a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale dei coniugi), il M. non aveva né la disponibilità né l’aspettativa di percezione di tali somme durante il matrimonio, avendo iniziato il giudizio per vedersi riconosciuta la pretesa creditoria nei confronti del terzo Rolf srl solo successivamente, ottenendo la sentenza nel 2009, cosicché non poteva averle né consumate né tantomeno sottratte, in quanto il credito non era “neppure ancora esigibile”.
Assume la ricorrente che ai fini della propria domanda rilevava, invece, solo che il credito fosse maturato in costanza di matrimonio (il che si poteva evincere dalla domanda riconvenzionale azionata dal M., nel giudizio promosso nel 1993 dalla Rolf srl, per oltre L. 400.000.000) e che non fosse stato consumato al momento dello scioglimento della comunione nel 1996 (dato questo pacifico poiché, a quella data, non era stato neppure riscosso).
Questa Corte (Cass. 14897/2000) ha ribadito che “costituiscono oggetto della comunione cosiddetta “de residuo”, ai sensi dell’art. 177 lett c) c.c., non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione”. Secondo tale orientamento, i proventi dell’attività separata dei coniugi, contemplati all’art. 177 c.c., lettera c), percepiti o che debbono esserlo, per i quali manchi la prova, ad opera del coniuge titolare, del loro utilizzo per le esigenze della famiglia o per investimenti già compresi nella comunione, entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione e (con inversione dell’onere della relativa prova, ricadente sul coniuge titolare) solo i proventi per i quali sia raggiunta questa prova (vale a dire la dimostrazione che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione) resterebbero esclusi dalla caduta in comunione de residuo.
Successivamente, rispondendo alle obiezioni mosse da parte della dottrina su tale interpretazione, secondo cui i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi “entrano di pieno diritto a far parte della comunione immediata”, essendo destinati indistintamente al “consumo” della famiglia, si è poi precisato che “l’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione” (Cass. 13441/2003; Cass. n. 2597/2006).
Alla luce di tale indirizzo, i redditi individuali dei coniugi – tanto che si tratti di redditi di capitali (art. 177 c.c., lettera b), quanto che si tratti di proventi della loro attività separata (art. 177 c.c., lettera c) – non cadono automaticamente in comunione, secondo il meccanismo di comunione differita coniato dal legislatore del 1975, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione; la comunione immediata riguarda solo gli “acquisti” (art. 177 c.c., lett. a), le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio (art. 177 c.c., lett. d), nonché gli utili e incrementi delle aziende appartenenti a uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi (art. 177 c.c., comma 2).
In motivazione nella sentenza n. 2597 del 2006 si è aggiunto che ” la comunione de residuo non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma di luogo ad una semplice aspettativa di fatto, in quanto solo al momento dello scioglimento della comunione viene ad operarsi un vero e proprio ritrasferimento, nel senso di una comproprietà differita”. In sostanza, l’acquisizione differita dei redditi personali implica che il percettore dei redditi, dopo aver assolto l’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia, ha la più ampia disponibilità dei redditi stessi, potendo, a sua discrezione, consumarli sia a favore della comunione, operando degli acquisti che, a norma dell’art. 177 lett. a), entrano in comunione, sia a favore di se stesso, operando acquisti che, per l’uso cui vengono destinati, vanno considerati quali beni personali ex art. 179, lett. c) ed e) c.c. Il principio è stato successivamente ribadito (Cass.21648 /2010; Cass. 5652/2017).
Tanto premesso, in base alla lettera dell’art. 177 lett.c) i proventi delle attività separate cadono nella comunione differita o de residuo anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione (come prescritto espressamente, invece, dalla lett.b) per i frutti dei beni personali, cfr. Cass. 1429/2018) ed anche se ancora non esigibili, in difetto di previsione in tal senso, purché costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale.
Tra essi sono compresi proprio i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate.
Non è poi esatto quanto affermato dalla Corte d’appello in ordine al fatto che, al momento dello scioglimento della comunione (nel 1996, secondo quanto accertato in giudizio), il M. non aveva ancora la disponibilità delle somme di cui l’attrice ha chiesto l’attribuzione della metà, “avendo il predetto iniziato il giudizio al fine di vedersi riconosciuta la propria pretesa creditoria nei confronti della srl Rolf soltanto dopo lo scioglimento della comunione”, cosicché egli non aveva non solo la disponibilità ma “neppure l’aspettativa di percezione di tali somme durante il matrimonio” e certamente non poteva averle consumate né tantomeno sottratte.
Invero, il giudizio per l’accertamento del credito era pacificamente iniziato nel 1993, come allegato dalla ricorrente.
Ne consegue che i proventi in oggetto rientravano nell’ambito della disciplina di cui all’art. 177, comma 1, lett.c), c.c..
Va dunque affermato il seguente principio di diritto: ” Ai sensi dell’art. 177 lett.c), i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi cadono nella comunione differita o de residuo ove non consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione e quindi anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione e ancora non esigibili, in difetto di previsione in tal senso, purché costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale; tra essi sono compresi i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate”.
7. Per tutto quanto sopra esposto, vanno accolti l’ottavo e il nono motivo del ricorso, respinti i restanti, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’appello di Ancona in diversa composizione. Il giudice del rinvio provvederà alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, riunito il ricorso n. 23136/2021 a quello n. 23074/2021, accoglie l’ottavo e il nono motivo del ricorso così unificato, cassa l’ordinanza impugnata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 31 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2023